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Riflessioni di un Vagabondo

Autore: Akela il Solitario

Cammino ormai da tanto per questi sentieri; strade asfaltate, viottoli di campagna, vicoletti lastricati. Ho ascoltato il canto del passero solitario nel tramonto, il verso del gallo ad ogni ora del giorno e della notte, clacson di automobili di ogni genere, e il superfluo vociferare umano in ogni angolo del mondo.

Ho visto castelli altissimi contornati da mura indifferenti, o fredde inferriate, che impedivano ad estranei l'accesso. Queste custodivano egoisticamente la gioia e il benessere fino all'eccesso, in gran contrasto con l'esterno.

I passeri cinguettano beati, tondeggianti e bruni si riuniscono tra i rovi, o tra i rami di un ulivo, e distolgono il mondo col loro caotico chiacchierio.

La natura è uno splendore, dona tutto ciò che ha a tutti i suoi figli, e l'equilibrio è tutto ciò che le è dovuto, che è rispetto a sua volta e trascende in libertà.

Su questa terra e sotto questo cielo nasciamo tutti liberi e nel medesimo modo dovrebbe essere la nostra fine, il vicolo cieco sul nostro sentiero, il capolinea.

Ahimè, per alcuni il sentiero è un lusso non concesso, non tutti beneficiano del diritto alla camminata, per alcuni il percorso finisce di forza e per altri non inizierà mai, a loro va solo il lento sfacelo in attesa della fine.

Quanto rammarico nel vedere infanti vagabondare soli per la strada, spaesati esploratori senza casa e senza meta. Piccoli e innocenti, dapprima strappati alle cure materne, poi crudelmente dimenticati e in fine allontanati. Non capirò mai il perché, non posso, in un mondo dove c'è spazio per tutti e dove tutti dovrebbero essere liberi di vivere la loro vita naturale.

Vagando lungo la via non è raro io mi imbatta anche in madri, coraggiose, ma stavolta sono loro ad essere smarrite, non i loro pargoli che mai verranno strappati loro da mani materiali. A trascinarli via saranno le fredde falangi della fame, della debolezza e della malattia. A chi lotta e vittorioso sopravvive spetta una vita di stenti, a metà tra la foglia secca e il ticchettio delle gocce che piombano giù dal rubinetto della fontana giù in paese, tra l'indifferenza dei passanti.

Credo sia tutto sbagliato, ci sono vite che frugano tra i rifiuti, loro posticipano la fine con qualche boccone malsano e poi c'è chi nella sua dimora ammassa e ingloba più di quanto gli spetti, preferendo di gran lunga lo sperpero al dono e alla ridistribuzione.

Ad ognuno il suo posto. La quercia radica il terreno umido del sottobosco, la volpe ha la sua tana con plurime entrate e le rane hanno il loro stagno o ruscelletto circondati dal silenzio. Così credo sia stato stabilito, da chi non so, ma sento che è così. Eppure la realtà è ben diversa.

Cammino ormai da molto, forse troppo, e sono arrivato alla conclusione che il mondo sul quale marcio è da tempo malato, è sempre più debole e ha troppe pulci.

Ho visto mio fratello, lui ci è morto lentamente e senza lotta, e i parassiti nella loro stoltezza persero la fonte vitale, ma quando la brama permise loro di capire e concepire, allora fu troppo tardi, e la pulce morì così come la zecca.

Sì, cammino da troppo e il mio rimpianto è non poter donare qualcuno dei miei passi, con me la sorte è stata fin troppo magnanima.

Ho capito d'essere un semplice cane, uno tra i tanti, uno dei tanti a cui manca la voce. Ma poi mi chiedo, se avessi parola verrei ascoltato? Probabilmente i miei suoni si unirebbero al coro di voci annientandosi, e tutto finirebbe nell'osceno e sterile vociare.

Succhia pulce, succhia oltre l'essenziale, succhia la sostanza, a breve perderai la tua essenza.